Un gomitolo

Fotografia di Oana Pughineanu – Seiko Pilgrim Photography


There comes a time – when we heed a certain call – when the world must come together as one.

Una piazza medievale gremita. Con tempio romano. A natale. Le luci brillanti si muovono e cadono verticalmente, dappertutto, a mo’ di pioggia. I palazzi che racchiudono la piazza e abbracciano tutte le persone sono illuminati di indaco, e la stessa sfumatura pare impregnare tutta l’aria custodita da quelle mura antiche. Senza via d’uscita. È un’aria satura di musica, ritmica, che smuove gli atomi, indaco, di ossigeno. Ma sicuramente anche di idrogeno. Al centro della piazza c’è un coro gospel. Si respira indaco e si ingeriscono note musicali potenti. Sembra tutto fasullo tanto è bello. Ma cosa vuol dire bello, pensa il ragazzo-uomo. E intanto cerca di ingoiare quel colore indaco che, nel frattempo, è diventato rosa. O rosa antico? Non so, non ho mai ben capito certe sfumature. Basta viverle. E mentre pensa ai colori, sente invece di riuscire a respirare le note. Gli entrano dentro attraverso il naso e le sente crescere in gola e scendere giù a gonfiare lo stomaco. Poi apre un po’ la bocca e sente che l’aria è fredda e bagnata e gli gela un poco la lingua. Ma è un’aria musicale. Colorata. Lucente. Viene voglia di leccarla tanto pare densa.

Il ragazzo-uomo resta lì in piedi. A fianco di alcuni amici che silenziosamente guardano verso il palco. Si chiede per un brevissimo attimo a cosa pensino. E fa congetture, per un attimo ancor più veloce. Poi alcuni ricordi affiorano. Ma sono tanti, e provengono da epoche diverse. Si stratificano uno sull’altro e, nella stratificazione, si intrecciano. Un gomitolo che cresce in verticale, senza arrestarsi, contorcendosi sempre di più. Ma sono bei ricordi? Ecco, di nuovo questa ossessione del bello. Che non vuol dire nulla. Eppure continui a pensare in questi termini. Alla tua età. Sono dunque brutti? Vale lo stesso. Sono traumatici? Forieri di estasi? Ispirazione? Il trauma è inspiring. Ma solo dopo. Molto dopo. Va ingoiato, masticato, digerito, evacuato. E io sto invece ingoiando aria colorata e umida. E musicale.

Situazioni simili avvenute secoli prima. Un concerto in una piazza molto ampia e fredda, scaldata dalle urla del pubblico. Il silenzio della sua mente. Alberi travolti dal vento. Un festival di artisti presuntuosi e vuoti. E un ragazzo alto, molto umile e concreto. Bottiglie di vino sui tavoli e rovesciate a terra. Un letto di ospedale silenzioso e la sua testa rumorosissima. Il profumo di disinfettante che pareva impregnare tutto il suo corpo. Tanti anni prima. E poi il letto, più recente, della stanza di sua nonna. Il letto di una lunga malattia e di una lunga comunicazione irreale ed esoterica. Quadri antichi e foto incorniciate ancor più antiche. Con persone che non esistevano più e che, al contempo, esistevano prepotentemente.

Nessuna connessione con quella piazza e, al contempo, innumerevoli e prepotenti connessioni. Intrecciate in quel gomitolo di atomi di ossigeno e di idrogeno, di colori e note musicali. Il gomitolo si attorcigliava e si dipanava dalla sua testa fino a coprire tutta la piazza e, dalla piazza, tornava, avvinghiandosi, fino al centro della sua testa.

Sua nonna non c’era più. Era il primo natale senza di lei. Sua nonna che l’aveva plasmato involontariamente a sua immagine. Sua nonna che era lì, nei suoi pensieri, e in quella piazza. Dissolta concretamente in quell’aria densa di molecole tangibili. Sua nonna era con lui. Gli entrava dentro insieme agli atomi umidi e colorati. E alle note.

Il mio corpo è come un’arpa e le parole e gesti di lei come dita sulle sue corde. Morivo dal desiderio di salire in cielo e di volare verso un altro paese dove non avrei più sentito parlare di guai. Pensieri e tempi talmente ingarbugliati che non vedevo più i cuscini bianchi su cui fissavo lo sguardo mentre mia nonna dormiva. Aspettavo qualcosa ma, subito dopo, non ricordavo cosa aspettassi.

Ad un certo punto una signora lo urta, da dietro, con un passeggino. Oltre al bambino minuscolo, la signora teneva un cane nerissimo al guinzaglio. Il cane aveva un aspetto tronfio e baldanzoso, come a fare da guardia a quella piccola creatura al suo fianco. Il ragazzo-uomo scambia uno sguardo col cane. La signora se ne accorge e gli lancia un sorriso. Complice. Poi se ne va, girando a sinistra, verso una volta affrescata che sembra dare sul nulla.

Era già tutto passato. Eppure era successo in quell’istante, stava succedendo nel presente. La devi smettere di riscrivere tutto, gli disse uno psicologo ignorante, vivi nel momento presente. Ma come posso vivere nel presente se lo annullo in tempo reale?

Osservò la scena e pensò alla vita – e come regolarmente gli succedeva quando pensava alla vita, diventò malinconico. Una tristezza dolce discese in lui. Sentì quanto era vano lottare contro la sorte – era questa la saggezza che i secoli gli avevano tramandato.

Gli amici erano rimasti lì. Girandosi per cercarli con lo sguardo, li vide chiacchierare. Non ne ho voglia, non stasera. Preferisco la musica e le voci vigorose. Il resto mi pare troppo flebile. Oggi.

Il ragazzo-uomo accese una sigaretta, nel presente-passato, e si concentrò sulla musica. Il freddo pare attenuato ma la pelle del viso è umida. Ha voglia di bere. Non appena percepisce quel desiderio, una sua amica lo invita al bar. È felice di quella comunicazione telepatica. Sono seguiti da altri tre amici e si ritrovano davanti a cameriere volgari, ma simpatiche. Una in particolare. Capelli nerissimi e innaturali, occhi cerchiati pesantemente di nero, palpebre blu elettrico e ciglia finte lunghissime e nerissime. Sotto quegli strati di trucco, tuttavia, il segno delle occhiaie era evidente. Una traccia indelebile di pianti lunghi e implosi, nascosti e mai del tutto liberati. Come fai ad esserne sicuro, potrebbe solo essere il tempo che passa. No, credimi, ne sono sicuro. Stasera riesco a vedere meglio. Indeed. Indeedness.

Mentre tutti chiacchierano ilari, decido di uscire con il mio calice di vino, mi accendo un’altra sigaretta e guardo il concerto da lontano. Si vede ancor meglio di prima, penso. O forse è una visione allucinatoria, non saprei, e non mi interessa pensarci. Voglio solo vedere meglio, e ancor meglio di prima, ancor meglio di sempre. Sempre.

Oh happy day. Oh happy day. He taught me how to watch. And live rejoicing.

Il vino ha un forte sapore. Versa dell’acqua nel calice per non ubriacarsi troppo. Ma non funziona mica così. Continuo a illudermi. Ma il vino è buono, ha il sapore della mia solitudine tra la gente. Ci sono talmente abituato ormai. A quel punto non vedo affatto meglio, anzi, non vedo più nulla. Quel caleidoscopio di gente e di luci velocissime è svanito. Eppure so che attraversa ora la piazza, la rimpicciolisce e, insieme, la ingigantisce. È forse questo lo stabimobilismo? Percezioni impressionistiche che diventano espressionistiche che diventano astratte. Le geometrie non-euclidee. Forse è così. Forse è davvero solo nella mente. Apfel baum. Neuclid. Joyclid. Nel nucleo della gioia rinnovata le mele cadono all’insù.

Proprio mentre una parte del gomitolo aggrovigliato sembrava sciogliersi nella sua testa e recuperare un certo ordine, seppur alineare, due amici lo raggiungono per fumare. Il gomitolo si riattorciglia all’istante, aggrovigliandosi ancor più di prima. Pazienza. Ci sono talmente abituato ormai. Iniziano a chiacchierare del più e del meno. So già che nulla si imprimerà nella memoria, o forse andrà a imbrogliare ulteriormente e inutilmente quel gomitolo. Small talk. Smallest, infinitesimally small ready-made talk. Concerti. Prezzi. Cantanti. Film. Film di natale. Non li danno più in televisione. Non sento l’atmosfera del natale. È freddo perché è umido. Sto lavorando a una jam session. Mi ispiro a tizio, a caio. Abbiamo ottime prospettive. All’ultimo concerto ballavano tutti. Comunque non è male questo coro gospel. Certo, una musica standard, un po’ datata.

Il ragazzo-uomo annuisce e finge di partecipare. Si sente sempre di più un uomo, ormai, in mezzo a tanti ragazzi. Che sono però più vecchi di lui, o almeno così sembrano. Eppure hanno vissuto molto, molto meno. Che strano. Abbozza sorrisi, ma non riesce a fingere risate. È comunque gentile, accomodante. A quel punto anche loro si sono dissolti ma, in qualche modo, sono svaniti nel nulla, quello vero, senza entrare nelle molecole musicali di ossigeno e idrogeno. Senza assorbire alcun colore. Il nulla opaco di una morte solo a tratti metaforica. Poi sempre più letterale, almeno nella testa del ragazzo-uomo, improvvisamente solo uomo. Ripenso istantaneamente a mia nonna. Un flash violento mi appare davanti agli occhi, concreto, mentre le persone parlano, inutilmente ad alta voce. La nonna è distesa a letto con gli occhi sbarrati sul soffitto. Con le mani appena sollevate, muove le dita vuote come se tenesse un rosario e ne sgranasse le perle, una ad una. Con la bocca recita l’Ave Maria, ma non esce alcun suono. Lui capisce però perfettamente ogni singola parola. Ave Maria, piena di grazia, il signore è con te, tu sei benedetta fra le donne. “Tu” sei benedetta fra le donne. Mentre lui la osserva come osservasse una bambina antica e millenaria, lei lo vede e lo fissa. E chiude la bocca. Lo osserva anche lei. Ciao nonna, come stai. Bene, risponde lei, ma con un filo di voce. Lui capisce solo perché vede le sue labbra unirsi per produrre il suono labiale della b. Oh, sono contento. Hai fame? No. E invece un succhino ti andrebbe? Sì. Le porge la cannuccia sulle labbra e lei beve tutto, tutto d’un fiato. Poi lo guarda amorevole. Lui le pulisce la bocca. E mentre lui pulisce, lei sussurra: grazie. Poi chiude gli occhi e si addormenta all’istante. Serafica. Lui continua a guardarla e poi…

– Ma guarda chi c’è!!!!!!!

Uno dei suoi amici urla all’improvviso, e lo fa destare. Proprio quando il gomitolo si dipanava così perfettamente. Un altro ragazzo, che era lì per caso, si avvicinava. Un amico comune. Avanzava con andatura regale, lentamente. Con un bicchiere di spritz in mano. Capelli rasati e occhi celesti lucenti. Bellissimo.

– Ah Mauro! Ciao Mauro, scusami non ti avevo riconosciuto. Hai i capelli cortissimi!

Mauro bacia tutti. Emana molta luce, ma il suo corpo pare contratto. Gli trema la mano. È il freddo, penso. Lo abbraccio, forte, e lo bacio. Gli voglio molto bene, da sempre. È un artista vero, e ha molto da raccontare. Ha molto da percepire, credo. Poi raccontare è talmente arbitrario. Si racconta qualcosa e chi legge o ascolta percepisce tutt’altro. Di solito ciò che si vuole percepire e che fa comodo, spesso per cancellare i guai o i pensieri. Qualsiasi pensiero. È la teoria pragmatica degli atti linguistici. Ma andrebbe riformulata, partendo dall’egocentrismo dell’interlocutore. O del mittente. O di entrambi. Mauro è comunque intriso di quegli atomi di idrogeno colorato e di ossigeno musicale. Ne fa parte, si vede molto chiaramente. Magari anche lui sta percependo quell’aria in quel modo.

– Come stai? Cosa hai fatto in questi giorni di festa?

– Sono stato all’ospedale.

– Oh mio Dio, ma che è successo?

– È morta mia mamma.

Dice la frase con un’unica emissione di fiato, velocissimo, come se temesse che, altrimenti, non sarebbe riuscito a pronunciarla. Poi ci guarda e ci sorride, arreso. Ma non fa in neanche tempo a dischiudere le labbra che abbassa gli occhi, avvicina velocemente il bicchiere alla bocca e, dalla cannuccia, succhia, avido, un sorso di spritz. Lo accarezzo e, in silenzio, lo abbraccio. Anche l’altro amico lo abbraccia. Diventa un abbraccio a tre, qualcuno dice “mi dispiace molto”, ma non è chiaro chi sia. Le parole escono sempre alla stessa velocità, sempre con uniche emissioni di fiato, come fossero tutte monosillabiche. Mauro racconta, per sommi capi, di tutta la superficie di quell’evento appena successo. Si è rallentato. E più racconta e più gli occhi, ormai spenti, si illuminano, e la loro luce si mescola all’indaco dell’aria. Che forse è ormai rosa. Dice che ha scritto un elogio funebre, seppur con fatica per iniziare a farlo. Dice che è andato tutto bene, che la mamma non soffre più. Dice altre cose ma a quel punto non lo seguo più e riesco solo a concentrarmi sul suo viso. Mi pare che su quel viso maschile e perfettamente squadrato compaiano i lineamenti di sua madre. Una metamorfosi molto naturale, per nulla distorta. Eppure non ho mai visto sua madre, neppure in foto. Nella voce baritonale di Mauro si sente chiaramente la voce, più acuta, della mamma. Eppure, è una voce che non ho mai sentito.

Dopo la narrazione di quella nefasta narrativa, le condoglianze, e le dimostrazioni di affetto, Mauro si ferma. Come in preda a un panico improvviso, ma leggero. Si scusa. E chiede a tutti come stiano e delle loro giornate di festa. Dopo un breve e lunghissimo istante di silenzio, tutti iniziano a raccontare aneddoti insignificanti, spostando drasticamente il baricentro della comunicazione. Il ragazzo-uomo non riesce a dire più nulla, e ascolta basito, immobile, sorridente, forse amorevole. Si chiama diniego, pensa. Che non è solo una negazione, ma anche un rifiuto. Si cancella tutto per non aprire le ferite. Ma, cancellando, le ferite non si rimarginano mai. Bisogna lasciarle aperte e far sgorgare tutto il sangue avvelenato, guardarlo fluire e macchiare, indelebilmente, tutto il resto. Mauro risponde, placido, a tutti i pretesti di quel diniego. Forse sa che lo stanno facendo per il suo bene. Per distrarlo. Magari anche lui vuole distrarsi.

Distrarre. Distrarsi. L’allontanamento del pensiero dalla realtà. Separare. Lo stato del pensiero rivolto altrove, assente dalla realtà attuale e circostante. Deviamento, sviamento da ciò cui la mente dovrebbe attendere, e in cui dovrebbe raccogliersi. Stornare la mente dai guai. Dissipazione della mente. La mente che subisce la successione spontanea delle immagini, e le cancella. Disbranare. Disfare. Dissipare. Disunire. No, no, non voglio questo. La distrazione non è l’astrazione. L’astrazione contiene la concretezza. Mondrian. Gli alberi e le linee, i rettangoli e i quadrati, il bianco e i colori. Astrarre. Trarre dalla realtà, distaccare e ricreare, distacco della mente ai sensi, separazioni che ricongiungono. Avvicinarsi per allontanamento. L’astrazione non distrae, non sollazza. Unisce, crea, riformula, azzera e riparte. La distrazione si inabissa nel vuoto, inghiotte senza masticare, e fa scomparire tutto. I vivi sono morti e i morti sono vivi.

La conversazione muore, la mamma di Mauro vive. La conversazione è morta, la mamma di Mauro vive. La conversazione morì, la mamma di Mauro sopravvisse.

It’s time to lend a hand to life,
The greatest gift of all
.

Dopo pochi minuti di chiacchiere – che a tratti sembrano secoli e a tratti frazioni immisurabili di secondi – Mauro si congeda bruscamente, bacia tutti di nuovo, e si dilegua tra la folla. Lasciando impressa nel gruppo di persone l’immagine di un sorriso talmente autentico che diventa disarmante. Qualcosa è passato. Ma è presente. Qualcosa è entrato nella testa di tutti gli interlocutori. Alcuni lo cullano, altri lo cancellano. Ma restano tutti un po’ in silenzio. Poi vanno a prendere un altro drink e si uniscono ad altre conversazioni con altre persone che erano appena un poco più distanti. Io non ho più una voce. Figuriamoci una voce narrante. Eppure ho bisogno di narrare. La comunicazione è salute.

Sembrerebbe tutto uno script. E invece non lo è. La realtà supera la fiction, ma solo se si accetta il carattere fittizio della realtà e il carattere reale della fiction.

A quel punto, il ragazzo-uomo, ormai vecchissimo, si siede sugli scalini di pietra di una fontana. Da solo. È tutto così strano, pensa, tutto così denso e tutto così effimero. La nostra forza più audace è la nostra debolezza. E la nostra debolezza più pusillanime è la nostra forza. The shock-receiving capacity is what made me a writer.

Non nevica, ma è come se nevicasse. Sente goccioline di acqua invisibile accarezzargli la pelle del viso. La neve invisibile. Come la morte. Come gran parte della vita. La neve invisibile bagnava tutti, impregnava la pelle di tutti. Per lui era giunta l’ora di ripartire. La neve bagnava quella piazza e tutto il borgo, fino al cimitero. La sua mente venne meno, lentamente, mentre sentiva quella neve che cadeva flebile su tutto l’universo, e flebile cadeva, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.

Il gomitolo era diventato altissimo e imponente. Un globo, un grembo. E più cercava di srotolarlo, più il filo si allungava, a dismisura, velocissimamente, e faceva gonfiare il gomitolo stesso. Cercava di creare un pattern con il filo, di unirlo in qualche figurazione lineare di tessuto, ma il groviglio si raggomitolava e insieme si srotolava, iperbolicamente, verso la piazza, verso il cimitero, verso le persone morte ma vive, quelle vive ma morte, verso il presente-passato, il passato-presente, verso il nulla del futuro. Sgorgava dagli anfratti più reconditi e astratti della mente. Usciva dal naso, dalla bocca, dalle orecchie, da ogni orifizio. Inesauribile.

Il concerto è finito. Niente più note nell’aria. Silenzio. Interrotto da inutile ronzio di voci. Come uno sciame di vespe fastidiose. Che poi, improvvisamente, volano via. E scompaiono. E poi tornano, intermittenti. Un globo agglomerato, racchiuso in una piazza medievale. Con tempio romano. Con una nonna reale e viva. Con aria concreta. Ormai, però, silenziosa.

Oh happy day. Oh happy day.

Federico Sabatini

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